Solo negli anni più recenti il fenomeno della rivoluzione ha trovato nelle scienze sociali statunitensi una significativa collocazione teorica nel repertorio dei processi che trasformano il sistema sociale. Nei primi due decenni del secondo dopoguerra lo struttural-funzionalismo e la teoria del pluralismo democratico, in virtò dell'influenza decisiva esercitata fin nella definizione dei paradigmi della scienza politica e della sociologia nord-americana, hanno orientato gran parte della teoria e della ricerca a sottolineare gli elementi di stabilità e di equilibrio del sistema e a trascurare quelli di conflitto. Uno spartiacque analitico ha, perciò, rimarcato una netta discontinuità tra la violenza collettiva (e la rivoluzione quale sua forma estrema) e il conflitto istituzionalizzato che rientra nel novero delle normali relazioni sociali. Sulla scorta di questa implicita, e tuttavia operante distinzione, si è arrivati ad ipotizzare una sostanziale similarità tra le cause che generano i movimenti rivoluzionari e i fenomeni di panico, le manie, le improvvise esplosioni di ostilità. Apparentato al sorgere di questo tipo di comportamenti collettivi, il problema della genesi della rivoluzione è stato spesso affrontato con un approccio socio-psicologico considerato come il più adeguato sul piano concettuale a comprendere fenomeni collegati a tensioni non sempre razionali. Anche nei casi in cui, con stretta aderenza al paradigma funzionalista, la rivoluzione è stata interpretata come una disfunzione multipla e simultanea dei sottosistemi sociali, l'insorgere del fenomeno è stato comunque ridimensionato a degenerazione patologica di sistemi che élites politiche competenti e flessibili possono prevenire con riforme ed iniziative adeguate ad evitare la diffusione della violenza politica e dello squilibrio sociale.